Arte 2018

Intervista a Emiliano Melchiorre

 

Nell’insorgere del postmoderno, il filosofo francese Jean-François Lyotard individuava come fattore determinante l’avanzata del mezzo tecnologico, possibile protesi di linguaggio. In 30 ritratti per 30 giorni, esposta al MACRO  per la collettiva 16:13, Emiliano Melchiorre utilizza un eye tracker, un dispositivo che registra i movimenti oculari e li traduce in immagini. L’opera diviene letteralmente una protesi dell’occhio che osserva, mettendo così in discussione il fare artistico. In quest’ottica emerge il modo di operare di Melchiorre, che utilizza gli ultimi ritrovati tecnologici in modo spontaneo, vero e profondo.

Non sono molto legato al mezzo, ma uso ciò di cui necessito per arrivare ad un certo risultato. L’eye tracker diventa una protesi dell’occhio che guarda, ma essenzialmente noi viviamo di protesi: il pittore tradizionalmente utilizza il pennello come fosse una protesi della mano. Nel momento in cui decido di utilizzare una macchina del genere lo faccio per potenziare una qualità che già io come essere umano possiedo, materializzando un sistema come quello della visione che è invisibile e biologico.

Quello che interessa maggiormente Emiliano è il piano relazionale dell’opera, il rapporto tra artista e modello, costante fondamentale nella sua formazione.

Questo lavoro vuole essere un modo attraverso cui andare a riscoprire il classico. Ogni ritratto riporta la trascrizione di quello che l’artista vede nel modello, sentivo che però mi mancava la relazione tra le due parti e volevo tentare di salvare quel ritratto mentale a priori che si sviluppa ancor prima di essere materialmente realizzato. Per farlo ho pensato che il modo migliore fosse proprio quello di trascrivere lo sguardo sull’oggetto che desideravo analizzare e ritrarre.

Osservando la sequenza cronologica di 30 ritratti per 30 giorni, si notano varie direttrici di movimenti: nessun profilo è uguale all’altro. Il concetto della conseguenza temporale evidenzia sensibilmente l’evoluzione e la finale saturazione visiva del rapporto interrogato da Emiliano.

Non sono molto legato al mezzo, ma uso ciò di cui necessito per arrivare ad un certo risultato. L’eye tracker diventa una protesi dell’occhio che guarda, ma essenzialmente noi viviamo di protesi: il pittore tradizionalmente utilizza il pennello come fosse una protesi della mano. Nel momento in cui decido di utilizzare una macchina del genere lo faccio per potenziare una qualità che già io come essere umano possiedo, materializzando un sistema come quello della visione che è invisibile e biologico.

Quello che interessa maggiormente Emiliano è il piano relazionale dell’opera, il rapporto tra artista e modello, costante fondamentale nella sua formazione.

Questo lavoro vuole essere un modo attraverso cui andare a riscoprire il classico. Ogni ritratto riporta la trascrizione di quello che l’artista vede nel modello, sentivo che però mi mancava la relazione tra le due parti e volevo tentare di salvare quel ritratto mentale a priori che si sviluppa ancor prima di essere materialmente realizzato. Per farlo ho pensato che il modo migliore fosse proprio quello di trascrivere lo sguardo sull’oggetto che desideravo analizzare e ritrarre.

Osservando la sequenza cronologica di 30 ritratti per 30 giorni, si notano varie direttrici di movimenti: nessun profilo è uguale all’altro. Il concetto della conseguenza temporale evidenzia sensibilmente l’evoluzione e la finale saturazione visiva del rapporto interrogato da Emiliano.

Analizzando queste opere viene spontaneo interrogarsi sul ruolo che l’autore ricopre nei confronti delle stesse. Esse presuppongono alla base un processo ideativo, a volte meccanizzato, altre delegato al pubblico partecipante. Per Emiliano Melchiorre ritenere l’artista un superuomo che possiede un’interiorità che nessun altro ha, quindi in quanto genio può arrivare ad esprimere contenuti assoluti ed esclusivi, non è democratico, ed è questo il concetto che tenta di abbattere con la sua opera. 

Non amo molto il termine artista, soprattutto nel momento in cui esso venga autoriferito. Tento sempre di lavorare sul limite, percorrendo un filo sottile che separa arte e non arte. Non significa che non mi interessi essere un artista, se la gente dovesse riconoscermi come tale ne sarei ben contento. Quello che veramente mi piace è esplorare, come diceva Matisse “l’artista è un esploratore”. Sono una persona curiosa e per me questo è l’arte: l’arte è curiosità, è immaginazione, è fare ipotesi sul futuro, poi le definizioni le lascio agli altri.