Design 2018

Intervista a Sara Ricciardi

 

Entrare nelle stanze private di Palazzo Barberini è catartico. Sono spazi magnetici, con una loro vita e una propria intimità. Spazi differenti dal resto del Palazzo, pensato per potersi mostrare in modo istituzionale a un pubblico. Si tratta di una dimensione personale, gli ambienti si fanno più piccoli ma sono carichi di una personalità unica, una rivelazione riservata ai soli veri abitanti del Palazzo. Se dovessi immaginare di intervenire in questi spazi, vorrei offrire a queste stanze una nuova vita, affinché riescano a darsi nuovamente ai fruitori nella loro vera identità. Le lascerei intatte nella loro essenza eterea e divina. A livello progettuale, poi, creerei dei momenti di stasi. Creerei dei punti di sosta nelle varie prospettive, dei veri e propri anfratti dove potersi godere il momento, un istante di intimità. È questo il valore che vorrei assumessero i miei lavori: entrare nella dimensione di ognuno, nelle case, negli studi, negli ambienti dove si svolge la vita, e creare dei momenti, degli episodi che possano accogliere il quotidiano o raccontare una personalità, un piccolo pezzo di una storia più grande.

Sono di origine Campana ed ho il fuoco dentro. Sono fatta di fango, aglio, ed ho una fibrillazione tutta italiana. Ad un certo punto però, ho sentito la necessità di stare più nel tempo presente. Non in una continua corsa. Questa esigenza si è unita all’incontro fortuito con la danza Buto giapponese e con l’arte dell’ikebana. La scoperta di questi nuovi momenti di grande calma, in cui si riesce a governare il proprio tempo, si sono appropriati di me. Il tempo per me è diventato molto più burroso, morbido, lento. Questa nuova consapevolezza mi ha portata a ripensare le motivazioni del mio progettare e al voler creare questa idea di momento.

Il tempo è fondamentale per me. È il sale della mia vita. Dopo l’esperienza di studio a New York, mi sono accorta che il tempo in Italia è complesso. Abbiamo paura del tempo. Abbiamo paura di metterci in discussione e al tempo stesso avere delle critiche. Io ora il tempo lo gestisco in maniera spensierata. Io mi metto in gioco, faccio cose. Preferisco il ridicolo di fare a quello di non fare e di conseguenza, sono diventata molto più immediata.

Tornando con la mente a Palazzo Barberini, devo dire che amo molto contestualizzare le cose. Se dovessi realizzare un oggetto appositamente per una sala di questo Palazzo studierei bene la storia principesca della famiglia Barberini. Capirei come manifestarla tramite un oggetto. 

Mi piace essere specifica nelle cose. Partirei da un profilo di una donna che ha abitato quelle stanze e tenterei di creare per lei alambicchi, sistemi per posizionarsi in quei determinati spazi, tappezzerie, orli, arazzi. Tutti questi elementi cercherei di portarli all’interno di un’opera. Un processo di rielaborazione di quegli spazi, fortemente ricchi di sentimento. Creerei dei moodboard complessi. Tutti quei dettagli entrerebbero a far parte del mio processo progettuale ed è lì, che nascerebbe l’opera in sé.

Io sono semplicemente il mezzo attraverso cui scaturisce poi l’oggetto. Una sorta di imbuto di elementi esterni che rielaboro e riesco poi a conferire loro una consistenza materica sotto forma di oggetto di Design.