Architettura 2018

Intervista a Stefano Belingardi Clusoni

 

Stefano Belingardi Clusoni studia Architettura a Mendrisio, subendo l’influenza svizzero-tedesca dal punto di vista del concetto architettonico. Un’impronta, quindi, molto razionale, decisamente lontana da progetti organici, dove la forma vince sulla struttura, al contrario la visione di Clusoni vede la struttura come generatrice della forma.

Oggi molti architetti tendono a plasmare delle forme che non hanno alcun legame con le strutture ma quello che piace a me e mettere in mostra la struttura e far capire come funziona il progetto, quindi sono un po’ lontano da architetti tipo Gehry, anche se sicuramente è stato un genio nella sua architettura, che però non è la mia. Io concordo più con la visione di architetti come Christian Kerez, che riesce a collegare la struttura alla bellezza estetica, quindi diventa un valore aggiunto e non solo quello che tiene insieme l’edificio. Secondo me è questa doppia funzione quella vincente.

A contribuire alla visione architettonica di Clusoni opera, sicuramente, un background culturale solido e l’interesse per le arti visive, prezioso strumento di progetto.

Sono appassionato di fotografia e non so bene che tipo di ispirazioni mi dia, però mi dà delle sensazioni che sedimentano e poi mi portano ad apportare dei cambiamenti al progetto.

Anche la scultura, forse anche più della fotografia perché, se vogliamo, è più formale. Può darsi che una scultura mi dia un’idea a livello di forma del progetto e che io provi a riportarla nel mio disegno, anche se non sempre funziona. L’immagine scultorea è sicuramente un contributo importante alle mie idee: se si riesce a fare una scultura con una bella forma e una struttura funzionale, si raggiunge una proposta concreta ed armoniosa.

Se dovessi invitare a scovare il contributo della fotografia nella mia architettura, la visione spaziale si potrebbe ricondurre all’operato visivo di Luigi Ghirri , per il concetto di paesaggio e per come questo fotografo lega gli spazi del paesaggio. C’è anche un progetto di Alberto Burri a Gibellina che rimanda all’immagine di una pianura fatta a blocchi: una visione che potrebbe ricordare uno scatto di Ghirri e che mi piace molto.

Continuando a voler intercettare contaminazioni nei miei progetti, confesso di essere molto legato a Antony Gormley, come riferimento per l’idea di scultura. Lo apprezzo molto perché le sue sculture a livello spaziale hanno la capacità di esprimere l’Architettura.

A rifletterci bene, l’Architettura è intrisa dalle altre arti e le arti hanno dei fondamenti architettonici. Lampanti sono le opere di Lucio Fontana, su tutte, i concetti spaziali. Fontana ha sicuramente avuto un’idea geniale: eseguire un taglio per recuperare uno spazio che non c’è. Vista dal punto di vista architettonico è come l’operazione di aprire una finestra su un muro pieno, se vogliamo, Fontana ha ragionato anche da architetto.

Al contrario, un momento in cui ho ragionato da scultore e poi da architetto, in cui ho scelto consapevolmente di lasciar contaminare il mio disegno da un concetto plastico spaziale, è rappresentato dal mio primo progetto, quella a cui sono più legato. Si tratta di una torre che ho presentato all’università: un concept che rispecchia appieno la mia architettura. Questa torre è una sorta di scultura determinata dalla struttura: l’idea era mossa dalla volontà di rivedere il concetto di torre e sperimentare, definendo come nucleo un vuoto centrale. Questo core cavo permette che la struttura esploda verso l’esterno e generi una torsione: quindi si arriva a una forma finale generata completamente dalla struttura. Un modo di essere rappresentativo della mia filosofia architettonica, imprescindibile dalla struttura come matrice della visione finale, della forma.

La cosa interessante è che questo concept è nato come un progetto per un concorso di idee cui ho partecipato durante gli anni accademici e che adesso realizzerò concretamente a Panama. A distanza di tempo, avere la possibilità di dar vita a qualcosa che hai studiato all’università è emozionante e gratificante. È  anche significativo perché permette di comprendere che alcune giovani idee ci accompagnano e non dobbiamo aver paura di realizzarle, possono essere idee mature, idee valide.

Idee che portano lontano, che danno tante nuove occasioni. Essere architetto significa infatti poter avere occasioni, viaggiare, dar forma ai propri pensieri dotandoli di cognizione tecnica, plasmare le piccole rivelazioni ed intuizioni di cui siamo attivamente partecipi. Il viaggio in questa visione lavorativa è un aspetto intenso, faticoso ma stimolante e fondamentale. Non smetterò di viaggiare per lavoro perchè mi piace e l’estero mi dà molte opportunità lavorative, ma resto molto legato alla mia città, voglio essere un architetto milanese e soprattutto voglio essere un architetto che contribuisce allo sviluppo della sua città, e dell’Italia in generale se mi riuscirà. Non ho intenzione di scappare, sono molto legato al Paese in cui sono nato e a Milano in particolare. Questo è un aspetto prezioso del nostro lavoro: avere la possibilità di progettare in giro per il mondo, ma avere anche l’opportunità di poter prendere parte alla crescita del proprio Paese, di restare ed esserci per fare la differenza.