il termine “Cinema” ha assunto un’astrazione emotiva alla pari della parola “AMORE”.

Diario di Alain Parroni

A cura di: Nicola Brucoli, Nicola Aprile

Le mie giornate passano come prima, mi mancano però le persone, le loro suggestioni, essere contagiato da quel punto di vista, ma ci sono tanti altri benefici, soprattutto rispetto alla tranquillità della percezione visiva. In questo periodo mi sembra che i soliti spettatori abbiano più tempo di vedere e assorbire le cose, riscoprendo anche il valore di opere bisognose di una fruizione più lenta. Durante la quarantena i tempi si sono dilatati, e questo ha restituito agli spettatori uno sguardo più attento.
All’inizio dell’emergenza mi sono trasferito nel mio studiolo. Ha spazi immensi intorno, confina con una specie di boscaglia. Ho assemblato una piattaforma per digitalizzare vecchio materiale, riprese di quando ero piccolo. È stato un istinto che mi pare sia venuto un po’ a tutti in questo periodo. I miei genitori stanno insieme da quando erano adolescenti, perciò avevo filmati abbastanza datati e molto elaborati. Ho iniziato a caricare questi video in forma privata su YouTube, organizzandoli come fosse una serie, per stagioni e per puntate, così forse un giorno mio nipote potrà guardarli com’è abituato dalla grammatica dei linguaggi contemporanei.
Mi sono messo a spulciare gli oggetti che avevo intorno ed è stata una sorta di autoanalisi. Ho scoperto tante cose su di me, su com’ero, sulle cose a cui in passato davo un’importanza fondamentale e pure avevo rimosso. Ho cercato di riscoprire il mio passato visivo, così ho tirato fuori i disegni dell’asilo, di cui, ovviamente, non avevo memoria. Con dispiacere e fascino ho notato che un terzo dei disegni rappresenta ciò che avevo intorno come famigliari, amici, ambienti; due terzi invece le cose viste in tv, sui fumetti e nei videogiochi. Un bambino disegna o le cose che lo impressionano, o quelle che ripetutamente gli vengono sottoposte. Mi sono chiesto cosa avrei disegnato se non fossi stato influenzato dall’intrattenimento audiovisivo.
Devo provare a far giocare la mia cuginetta di dieci anni col Classico Game Boy. Mi interessa capire come si rapporterebbe con questi mezzi “vecchi”. Noi, nati a cavallo tra fine novanta e il duemila giocavamo con giochi di almeno cinque, dieci anni prima, oggi cimentarsi in giochi di cinque anni fa risulta difficile. Perchè? Forse perché i primissimi giochi, per necessità tecnologiche, erano talmente semplici e minimali da essere comprensibili da tutte le generazioni. Un po’ come i pittogrammi rupestri: universalmente comprensibili.
Da questi ragionamenti, e anche per suggestionarmi rispetto il quotidiano lavoro di scrittura, è nato un progetto: provare a realizzare, entro la fine della quarantena, la mappa del luogo di dove sono cresciuto, utilizzando un programma no-code per progettazione di giochi per Game Boy. I miei genitori e i miei nonni avevano una specie di bar e delle giostre in una pineta. Sono cresciuto lì dentro, avevo le giostre, i giocattoli, una libertà spaziale assoluta ma comunque ho passato tremila giornate a giocare al Game Boy, seduto sulle panchine della pineta. Mi piace l’idea di lasciare una traccia di questo luogo, che ormai non ospita più il luna park ma è ridotto solo a parco comunale.
Questa quarantena è un misto tra passato e futuro, il presente non c’è. Un limbo in cui stiamo rintracciando tutto il passato per elaborarlo nel futuro più prossimo.
Avrei dovuto sviluppare un progetto in VR da portare all’Expo di Dubai. A causa della pandemia il corso è stato rimandato e mi è stato chiesto di continuare a partecipare, pur non conoscendo le nuove date che verranno stabilite quando l’emergenza sarà più leggibile. Quindi di base sto accumulando un po’ di cose.
Appena cominciata la quarantena mi ero sentito con altri amici registi per fare un film su questa nuova, paradossale situazione – forse un po’ come tutti coloro che lavorano in ambito di arti visive. Nemmeno il tempo di dirlo, e sono uscite migliaia di call e proposte, tutti i festival si sono attivati per documentare il periodo. Io sono andato a registrare delle immagini in centro e, dico la verità, non l’ho trovato così affascinante. Sembrava una domenica d’estate, Ferragosto. Questo mi ha fatto capire quanto le persone siano determinanti. Poi magari c’è chi è innamorato della purezza dello spazio urbano, ma io e gli altri del gruppo ci nutriamo proprio della gente, siamo dipendenti dalle persone. Forse le arti, dopo questo periodo, prenderanno uno stampo autoriflessivo, ci si focalizzerà ancor più sul sé, su come raccontarsi, cosa fare. Io racconto il mondo intorno attraverso il riflesso di me stesso.
A livello di percezione del mondo ne usciremo, spero, più consapevoli, un po’ come quando viaggi: essendo tutto nuovo ti concentri maggiormente sulle piccole cose, una sorta di visione a corridoio; forse questo “neo sguardo” è un dono che rimarrà nelle persone. Mi auguro che sarà così, magari quando saremo sul Raccordo nel traffico a suonarci guarderemo affianco e vedremo una persona più che un autista incazzato. Forse ci aiuterà a porre l’attenzione sulle singole persone.
Sono molto curioso invece rispetto alla percezione del Cinema. Mi chiedo se nella lista delle cento cose che le persone desiderano di più in questo momento ci sia andare a vedere un film in sala.
I film vengono visti più di prima però mi chiedo se non abbiano davvero bisogno di uno spazio proprio, uno spazio in grado di ingrandire le persone e le cose. Vorrei chiedere alle persone in fila al supermercato: “che cos’è il Cinema? Esiste oggi?”. Invito tutti a provarci. Ad oggi il termine “Cinema” ha assunto un’astrazione emotiva alla pari della parola “Amore”: tutti sanno cos’è, nessuno riesce a definirlo.
Ho notato che nel film a cui sto lavorando c’erano tante scene di massa, dalla spiaggia alla Roma più turistica. Adesso che rileggo la sceneggiatura mi fa molto strano immaginare queste scene. Avevamo anche fatto dei test con una steadicam, in mezzo alla gente reale, e riguardandoli ora sembrano immagini provenienti da un film di fantascienza. Se avessi iniziato oggi a scrivere quel film l’avrei portato sicuramente in altre direzioni.
In quarantena immagino dei film meno corali, più sul singolo, un po’ come nelle videochiamate che stiamo facendo ogni giorno dove ci sono due primi piani, entrambi sullo schermo; ognuno con le proprie singolarità.
Da qui in avanti vorrei analizzare sempre di più la cultura che abbiamo “sotto casa” ma che magari abbiamo percepito come distante ed è diventata invisibile, perché l’abbiamo sempre avuta sotto gli occhi, tra le mani. Non siamo mai riusciti fino in fondo a dargli valore filmico, forse deviati dal continuo propinarci un intrattenimento multimediale che raccontava culture di altri luoghi, nei film.
La parola chiave di questo periodo è “contagio”. E questo è anche una delle cose che mi affascina di più, in tutti i campi. Il contagio tra mezzi diversi. Il concerto del 26 Aprile di Trevis Scott su Fortnite, quello che cos’è? AI Cinema manca ancora quella contaminazione totale. Voglio riuscire a capire com’è stato contagiato il cinema o come potrebbe esserlo, anche per creare degli anticorpi verso le nuove tecnologie.
Mi ricordo che quando era nato YouTube c’era il boom delle web series. Erano delle serie a tutti gli effetti che stavano sul web, quindi erano denominate web series. Perché Netflix dovrebbe essere esente da questa etichetta? Perché Stranger Things non è una web serie ma una serie tv, nonostante sia visibile solo con una connessione ad Internet?
In questo periodo c’è una confusione di termini assoluta. Io non sono nessuno per mettere ordine su questa cosa, anzi mi piace sguazzare in questo e vedere le cose come stanno cambiando perdendo il senso originale.
Ho fatto alcune considerazioni sull’eredità culturale e ho scritto un po’ di pagine sul cinema e la sala. Mi piacerebbe scrivere un opuscolo per la riapertura delle sale cinematografiche. Cosa succede a un’arte nata da una determinato fattore espositivo nel momento in cui quest’ultimo viene a mancare? Per fattore espositivo si intende all’interno della sala, primo spazio pubblico ad essere stato chiuso e probabilmente ultimo nella riapertura.
La sala è sempre stata il mezzo d’intrattenimento meno condivisibile. Oggi posso condividere con altri tutto ciò che mi interessa: se vado ad una mostra e faccio la foto, con un videogioco posso streammare online, in concerto posso videochiamare un mio amico. La sala invece è buia, infotografabile e il telefono non prende nemmeno. E un’esperienza troppo personale per il contemporaneo. Se i cinema dovessero riaprire a dicembre vorrebbe dire che siamo stati un anno intero senza la sala, per la prima volta dalla la sua nascita; persino durante la Seconda Guerra Mondiale era aperto – anzi in quel caso era utilizzato come arma politica.
Quella della sala, un po’ come un concerto, è un’esperienza che si può vivere solo lì. Uno spazio, con persone sconosciute messe una affianco all’altra (e non per mezzo di un algoritmo), uno schermo gigante. L’affluenza del pubblico non diminuirebbe se gli si offrisse l’esperienza adatta a quello specifico mezzo e che non possono avere da nessun’altra parte se non in quel preciso luogo. Vedo la sala come un mix tra museo e concerto.
Ovviamente molto dipende anche da quali film escono in sala, perché se il neo-spettatore verrà “educato” male, offrendogli la stessa esperienza che può frequentare da casa, probabilmente abbandonerà quel mezzo perché non ci troverà nessun valore aggiunto. A Roma, prima del Coronavirus, molte sale stavano chiudendo perché non riuscivano più a sostenere i costi. Poi è arrivata la quarantena. La speranza è che riaprendo torni qualcosa di nuovo: l’anno 0 del Cinema. Mi auguro un’annata di Post-Cinema.