nessun posto non esiste, devi solo imparare a GUARDARLO.

Intervista a Sofia Podestà

A cura di: Ginevra Corso, Nicola Brucoli, Carlo Settimio Battisti

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Un paesaggio può esprimere le relazioni umane?

Certo. L’uomo è inevitabilmente legato al paesaggio, perché è lo spazio in cui vive. Osservando un paesaggio privo di persone, questo spesso racconta molto più di uno sovraffollato, che addirittura potrebbe non far mettere a fuoco cosa si ha davanti.
L’uomo si è sempre imposto nel paesaggio, nel bene e nel male, e questo esprime la relazione che ha con esso. La cosa paradossale che ne risulta è che più l’uomo, nella sua mania di controllo, impone la razionalità all’interno del paesaggio, più questa appare spesso fallace e fuori posto. Le leggi della Natura, per quanto esse possano risultare indecifrabili, hanno invece un loro ordine e razionalità, ogni cosa avviene per uno specifico motivo, senza ombra di dubbio. Nelle mie fotografie c’è sempre qualcosa di me stessa, è inevitabile. Quando guardo un luogo, conosciuto visto la per la prima volta, quello che mi spinge a prendere la macchina fotografica è la nascita improvvisa di una empatia con quel posto. Riconosco qualcosa di mio in esso e quindi lo voglio prendere con me. 

Che luogo è un non-luogo? Come si racconta un posto che non esiste?

Il non-luogo è un luogo particolare: spesso non ti rendi neanche conto di attraversarlo, non lo noti, perché non ha niente di interessante, ma è solo funzionale. Eppure è interessante proprio perché lo vivi tutti i giorni: ti permette di studiarlo da vicino e nei suoi cambiamenti nel tempo. Nessun posto non esiste, devi solo imparare a guardarlo.
Per lunghi anni ho fotografato solo quello che mi esaltava, mi stupiva, perché non lo avevo mai visto e che quindi dovevo assolutamente immortalare. Solo dopo aver visto una fotografia degli anni Settanta del mio palazzo ho realizzato quanto tutto può cambiare: all’orizzonte, dove ora è solo un sovrapporsi di palazzi di dubbio gusto, si vedeva una collina verde, incolta, e la mia scuola elementare verde, incolta, e la mia scuola elementare non esisteva ancora. Probabilmente è in quel momento che, per paura di dimenticare i luoghi in cui sono cresciuta, ho iniziato a guardare tutto in un modo diverso, accorgendomi che anche sotto casa è possibile trovare qualcosa di interessante e di esistente. È in questo modo che si può creare il racconto di un luogo che solo apparentemente non esiste. Dico apparentemente, perché un luogo che esiste per me, non vuol dire che esista per un’altra persona, il concetto è relativo. La sfida, per la mia fotografia, è creare un’immagine che possa mostrare quel mio luogo “non esistente” agli altri.

Come racconteresti in uno scatto l’origine del genio? Quali componenti della cultura classica influenzerebbero la tua fotografia?

Creerei l’immagine di una montagna che affiora in modo delicato, ma con decisione, dalle nuvole. Questo perché l’origine del genio creativo, secondo il mio punto di vista, è qualcosa che affiora lentamente e in modo imprevedibile, ma quando accade esso è potente come una montagna.
Gli elementi classici che influenzerebbero la mia fotografia sarebbero sicuramente la geometria e la simmetria. All’interno di un mondo frenetico e caotico come quello contemporaneo i principi geometrici mi aiutano a mettere ordine e armonia. Come la costruzione di una città romana, prima cosa: tracciare il cardo e il decumano. Una struttura perfettamente controllata però non basta per creare una buona immagine, sopra di essa deve essere costruito il livello di significato, altrimenti rimane una struttura chiusa e sterile.

In tempi di overdose visiva, qual è il tuo pensiero circa questo circondarci costantemente,e spesso in modo effimero, delle immagini? Cosa porta essere circondati da input visivi?

Da persona ingenua mi verrebbe da dire che accade perché non si vuole perdere nessun ricordo. Ma sarei davvero naif. Io penso che questo circondarci di immagini sia causato dalla stessa avidità di possedere le cose che è tipica della nostra epoca e dal narcisismo imperante dei social media, che ci spingono a creare e a circondarci di immagini per il solo fine di apparire.
È vero, infatti, che ormai lo sguardo è anestetizzato: abbiamo così tanto da guardare che alla fine non vediamo nulla, come quando ripeti infinite volte una stessa parola e poi questa perde di significato.